Ho visto "Vestiges 1991-2012" di Josef Koudelka

Non posso parlare di Josef Koudelka. E' stato ed è uno dei maggiori fotografi al mondo, un fotografo storico: a lui dobbiamo gran parte di ciò abbiamo visto dell'invasione di Praga da parte dei Sovietici negli anni '60. Eppure lui con la storia ha un feeling particolare. Ricordo un altro lavoro in qualche modo storico: "Wall" dove indagava il muro di separazione issato a tener confinati i palestinesi dentro i territori occupati. E' naturale quindi che "Vestigias" mi suscitasse una qualche curiosità: vedere come aveva affrontato un tema, sempre molto interessante per me, delle tracce dell'antichità.

Di buon mattino mi sono diretto in direzione Bard, in Val d'Aosta, dove questa mostra si svolgeva, all'interno del suo Forte, una location storica incorniciata in un paesaggio naturale bellissimo. Pieno di entusiasmo mi sono accinto alla visione della mostra al cui ingresso le parole di Koudelka mi informavano che per questo lavoro ha speso 23 anni fotografando e rifotografando presso i maggiori siti archeologici europei. Le foto iniziali erano poste su dei basamenti all'altezza del ginocchio e mostravano foto in formato panoramico, nelle sale invece oltre agli scanni così creati vi erano alle pareti alcune stampe giganti in formato diciamo 16:9 (ma non sono sicuro della proporzione) che mostravano alcuni luoghi.

Già il formato mi meravigliava abbastanza, pensavo che il formato 16:9 fosse riservato a qualche scatto non a tutti! Non è che questo formato non mi piaccia ma certo alla lunga stanca e porta un pò a pensare che in fondo sono tutte uguali queste foto di rovine in bianco e nero. Ed in fondo deve esser quello che hanno pensato anche i curatori perché di foto vere e proprie non è che ce ne siano poi molte alle pareti.

Nella terza sala ecco che ci si imbatte nell'audiovisivo di rito che ci mostra in sequenza continua 300 scatti, forse un po' tantini e magari sarebbe stato preferibile vederne qualche d'uno in più sulle pareti invece che proiettati come filmato.

Il modo invece di affrontare tali siti è stato meraviglioso: osservare oltre il visibile. Direi che Koudelka abbia saputo spingere la sua fotografia oltre la mera rappresentazione di antiche rovine, cosa oggi di moda e largamente abusata.

In fondo l'autore stesso ci tiene a precisare che la sua non è una fotografia ne archeologica ne architettonica:

"La mia fotografia non è un documentario. Non sto conducendo un'inchiesta. Non ho mai avuto interesse ne reportage. Cerco sempre la perfezione dell'immagine. Scatto sempre le mie immagini pensando come potrei migliorarle ritornando sul posto"

Un principio che mi sento di condividere, mi rendo assolutamente conto che tornare sui luoghi mi fa capire e comprendere meglio e di conseguenza migliora la mia capacità dietro la lente.

Koudelka indaga le rovine in una maniera nuova: ricerca ciò cosa che le renda vive di umanità, una umanità che fu ed ora non c'è più. Non a caso nelle sue fotografie non compare quasi mai, se non di sfuggita o come ombra, la figura umana, tuttavia la si percepisce e si percepisce come quelle antiche pietre siano state testimonianze di una storia di uomini. 

La mostra termina forse troppo velocemente e mi sento di non aver colto abbastanza del messaggio che Koudelka ha racchiuso nei suoi scatti, vorrei veder di più per capire di più.

Penso che potrei dedicarmi con calma al catalogo probabilmente più vasto della mostra stessa, e qui la seconda delusione. Il catalogo dal costo di ben 15 eur è poco più di un pieghevole in formato panoramico di una serie neppure troppo completa degli scatti della mostra: più che ad un catalogo assomiglia a quell'insieme di cartoline che i soliti venditori ambulanti ti propinano in prossimità di qualche monumento storico. Ok che parliamo di antiche vestigia ma un catalogo classico lo avrei almeno gradito.

Se nulla posso eccepire sulla mostra (e come potrei?), l'allestimento e il catalogo mi hanno lasciato molto scettico e alla fine non mi hanno soddisfatto. 

Forum Romanum, 2000

L'onestà della fotografia di reportage

Francesco Zizola è un grande fotografo di reportage, ed ho già in passato avuto modo di parlare di lui in questo blog. Oggi torna su un tema interessante e per me appassionante che è quello della verità nel fotogiornalismo.

Ancora una volta si muove dalle critiche nate dal World Press Photo, uno dei più ambiti premi fotogiornalistici al mondo.In particolare dalla vicenda del ritiro del premio al fotografo Giovanni Troilo, in quanto reo, a detta degli organizzatori, di aver costruito alcuni scatti. La vicenda è stata largamente ripresa sul web e nella stampa specialistica ed affrontata da Christian Caujolle a cui è seguito un intervento di Michele Smargiassi ed ora uno di Francesco Zizola.
 

In sostanza Zizola considera fondamentale l'aspetto deontologico del fotogiornalista:

Come possiamo infatti affermare che la fotografia abbia una relazione con il reale se non dichiarando che essa è un prelievo del reale effettuato da un fotografo che sottoscrive “un patto di onestà” con coloro che vedranno la sua fotografia?

Ma la parte che più mi interessa dell'intervento di Zizola è la seguente:

...Dobbiamo interrogarci su che cosa significhi oggi produrre giornalismo, anche visivo, quale funzione il fotogiornalismo è chiamato ad assolvere e in quali forme può essere garantita la sua credibilità. Lo dobbiamo a chi ci ha preceduto e ha lasciato documenti di ciò che siamo stati. Lo dobbiamo a noi stessi che aspiriamo – fino a prova contraria – a vivere in un mondo che non conosce il timore di essere oppressi e garantisce il diritto a essere informati su ciò che accade vicino o lontano da noi. E infine lo dobbiamo ai nostri figli, che un giorno leggeranno le nostre immagini-documento e che, se non saranno abbastanza attendibili come tali, ci derideranno per la nostra stupidità.

Personalmente quando parliamo di fotogiornalismo mi sembra condivisibile il punto di vista di Francesco Zizola e nulla toglie o aggiunge la soggettività dello sguardo del fotografo che esamina e seleziona in modo critico e onesto secondo la sua interpretazione del reale.

Ho visto la mostra "Walter Bonatti: Fotografie dai grandi spazi"

Finalmente sono riuscito a vedere la mostra "Walter Bonatti: fotografie dai grandi spazi" (al Palazzo della Ragione di Milano fino all'8 marzo, salvo proroghe). Conoscevo Walter Bonatti più come mito che come fotografo anche perché lui stesso, ho appreso nella mostra, non si considerava un fotografo.

Walter ha avuto la fortuna di vivere veramente due vite, prima come scalatore e poi come avventuriero solitario e questo lo ha portato negli angoli più remoti del pianeta dove appunto scattava le sue fotografie; fotografie, come dice il titolo stesso della mostra, dai grandi spazi perché quelli che ritraeva erano veramente spazi immensi. L'autoritratto ambientato era spesso una costante delle sue fotografie che erano più un diario fotografico che non una volontà esplicita di rappresentazione del luogo.

Per Bonatti la fotografia era nata come una necessità, in quanto lui fotografava le montagne che aveva intenzione di scalare per meglio studiarle. Più tardi si rese conto che le sue fotografie erano diventate anche un momento di ricordo e di immagine fermata nel tempo. Lui sentiva una certa repulsione per il virtuosismo fotografico, ma il suo stile derivava dal punto di vista soggettivo del suo suo animo. I suoi maestri non furono grandi fotografi ma piuttosto Hemingway, Jack London, Defoe e Melville.

Rio Maranon, Perù. Ottobre 1967

Il pubblico si immedesimò subito nelle sue fotografie e nei suoi racconti. Esse mostravano sempre un punto di vista soggettivo che includeva l'autore stesso. Le realizzava servendosi di comandi a filo o radiocomandi.

I pannelli della mostra sono di varie dimensioni, alcuni enormi che rendono benissimo l'idea degli spazi che il fotografo-viaggiatore affrontava. Ovviamente tutte le stampe derivano da scatti a colore (non saprei dire se pellicola negativa o diapositiva) lontani dalla nostra concezione digitale di estremamente dettagliato, sono piuttosto morbide ma hanno una pastosità di colori ed una ricchezza di toni veramente senza parole. I pannelli esplicativi informavano che "Bonatti riesce a cogliere la sua stessa fatica, la gioia per una scoperta, così come le geometrie e le vastità della natura che andava esplorando" e non si può non esser d'accordo.

E' stato curioso ascoltare involontariamente il commento di due ragazze che visitavano la mostra e si meravigliavano della estrema tridimensionalità delle immagini: in un mondo dominato da immagini elettroniche, si rimane veramente estasiati davanti alle immagini di questi enormi spazi.